Sebastian era arrivato da un paio di settimane, aveva fatto tre o quattro pomeriggi di pesca e avuto modo di catturare anche qualcuno dei grossi storioni appena immessi, esemplari di oltre dieci chili, anche se a nuotare nel lago ce n’erano anche di peso doppio. Sentì una voce affannata di donna gridare: “Fabio, va’ piano, aspettami..”; automaticamente si girò in direzione di quella voce. La donna doveva essere poco oltre la trentina, forse trentacinque ed era bellissima, non fosse stato per due profonde rughe che le solcavano il viso, rughe di preoccupazione e di dolore, ma gli occhi e il suo sguardo triste erano comunque straordinari. Fabio, suo figlio, evidentemente, aveva preso dalla mamma l’incredibile bellezza, solo che emanava simpatia, serenità e allegria. Gli era arrivato alle spalle di gran carriera: lui attirava i bambini, ispirava loro fiducia, solo che non era giunto correndo, ma su una carrozzella da invalidi a motore. Pochi secondi ed arrivò la madre ansimante, splendida nei pantaloni bianchi aderenti che le arrivavano poco sotto il ginocchio e la camicetta a fiori infilata in questi: un abbigliamento che ne evidenziava le forme perfette. Visto il mezzo di trasporto del ragazzino, che poteva avere undici o dodici anni, Sebastian capì il perché di quelle due rughe di sofferenza sul volto della donna. “Preso nulla?” chiese Fabio con una voce squillante come doveva essere quella degli angeli, che emanava una straordinaria, estroversa, allegria, nonostante il suo stato. “Un paio di storioni sui cinque chili” rispose l’uomo con noncuranza. “ Wow! – commentò con ammirazione il piccolo – sei proprio un figo: il pescatore più bravo del lago”. “Fabio!” lo apostrofò con voce bonariamente scandalizzata la madre: non doveva essere facile arrabbiarsi veramente con lui, un po’ per il suo stato, un po’ per la sua spontaneità e dolcezza. “Oh, non è mica un granché: qui dentro ci sono pesci che pesano quattro volte tanto”. A Fabio parve cadere la mandibola in una espressione buffa di autentico stupore: “Peccato che io non potrò mai prendere un pesce simile, neppure uno più piccolo: sai, io non sono paralizzato, potrei camminare, solo che sto morendo…”. Lo disse come una notizia marginale, senza dolore; Sebastian guardò di sguiscio la madre: le si era formato un gocciolone all’angolo dell’occhio, pareva un diamante. “Fabio…” lo richiamò ancora, ma con tono diverso da prima, più accorato e non poteva essere altrimenti. “Fabio, dobbiamo andare, fra poco arriva l’infermiera”. “Devo andare, fra poco arriva l’infermiera – le fece eco il figlio – tu quando torni?”. “Dopodomani”. “Se riesco, torno a trovarti – poi abbassò la voce a un livello udibile solo dall’uomo che stava accanto a lui – e ti racconto tutto”. “Va bene, sarò lieto di vederti” rispose: avrebbe voluto dire: di rivedere te e la mamma, ma non gli sembrava il caso di fare il galletto in quella situazione. Fabio tornò, sulla sua carrozzella a motore, con la madre, sempre più bella e sempre più sofferente nell’anima, lo si vedeva. “Eccomi qui, te l’avevo detto che sarei tornato a trovarti; se non fossi venuto sarebbe stato perché…” s’interruppe, guardò la madre con quel suo diamante liquido all’angolo dell’occhio e non terminò la frase. Sviarono il discorso, parlarono un po’ di pesca, di pesci, di catture, poi la donna chiese: “Fabio, lo vuoi un gelato?”. “Sì mamma, grazie, me lo vai a prendere?”. “Andiamo insieme..”. “No, dai, lasciami qui con il mio amico”. La donna parve un po’ indecisa. “Se vuole, non si preoccupi, lo guardo io e non mi dà fastidio, anzi, mi fa compagnia”. Titubante la donna si avviò al bar, sull’altra sponda del laghetto. “Ora che siamo soli ti dico tutto: sono nato con un grave difetto al cuore che mi ha fottuto sia reni che fegato: ho al massimo un mese di vita, ma pazienza: è come nella pesca, non sai mai se ti toccano cento pesci o dieci o nessuno. Io una dozzina di anni li ho vissuti, è andata così. Un po’ mi spiace per la mamma che resterà sola, ma un po’ sono contento: non ce la fa più povera donna e sono stanco anch’io delle cure”. Era incredibile: stava morendo, lo sapeva e si preoccupava per la madre. Meno male che Sebastian guardava il lago e la canna, perché anche i suoi occhi stavano diventando una miniera di diamanti. Poi la canna vibrò, Sebastian lottò e vinse contro un pesce di circa otto chili. Il bambino era pietrificato dall’emozione e dalla gioia. Sebastian rilanciò, dopo avere liberato il pesce, il bambino riprese la sua narrazione: “Sai cosa mi dispiace: non aver mai fatto l’amore, non ho neppure i peli là sotto e non mi sono mai neppure smanettato”. “Fabio Andrea Battisini!” lo richiamò la madre scandalizzata, che arrivava in quel momento con in mano il gelato e una birra per Sebastian, che era astemio, ma l’avrebbe bevuta lo stesso per non offenderla… almeno un po’. Fabio Andrea eccetera la guardò con un sorriso disarmante, come se fosse stato sorpreso a rubare un biscotto dalla credenza : ”… e di non potere mai prendere un pesce così” concluse. “Non è detto – rispose Sebastian d’impulso – io, Germano il gestore e il proprietario ti potremmo organizzare una giornata tutta per te, tutta e solo per Fabio”. Il bambino spalancò la bocca in quel suo buffo modo, poi si girò, guardò la madre con aria implorante: “Posso…?”. “Fabio, non credo sia il caso: sai che devi evitare sforzi ed emozioni, che ti fa male”. Adesso era il suo turno, per la prima volta, di sintetizzare diamanti dagli occhi; Sebastian si maledisse per la sua uscita, si sarebbe staccato la lingua a morsi. La voce di Fabio si alzò di un’ottava, man non di volume: pigolava: “Dai, mamma: ci sono le medicine, e poi cosa ho da perdere: gli ultimi quindici giorni in ospedale con l’ossigeno nel naso e un pannolino al posto dei boxer?”. La donna lanciò un’occhiata non proprio amichevole a Sebastian, poi sibilò: “Va bene”, appoggiò sulla coscia dell’uomo un biglietto da visita, quindi girò la sedia a rotelle del figlio e se ne andò. Ci fu una riunione a tre fra Sebastian, Germano e il proprietario; quest’ultimo aveva fama di “avere il braccino corto”, ma era sempre stato sensibile ai disabili e ai bambini, per cui accolse favorevolmente il piano di Sebastian: il giorno di chiusura settimanale avrebbero aperto solo per lui. Il fratello di Germano era un paramedico e sarebbe stato lì, pronto, con un defibrillatore, un ambu e l’ossigeno, anche se non li avrebbe messi in mostra e tutti sarebbero stati pronti ad aiutarlo. Sebastian telefonò alla signora Battistini e le espose il piano; lei gli rispose gelida, ma accettando tutto ciò che avevano preventivato per il piccolo. Venne il giorno: Fabio arrivò con la sua carrozzina alla massima velocità: aveva le gote rosse di eccitazione e di mal di cuore. Prima di iniziare la madre gli fece ingerire un paio di pastiglie grosse come caramelle, poi Sebastian gli porse la sua canna, montata, ma non innescata, gli spiegò come farlo di persona e come lanciare. Al primo tentativo il piombo gli finì quasi sui piedi e lui esplose in una fragorosa risata d’imbarazzo, ma era un bambino da sempre abituato a lottare, ci riprovò e fece un bel lancio. Al terzo tentativo ci fu un’abboccata, ma il pesce mollò la presa; intanto, in silenzio, erano arrivati tutti gli habitué del lago: c’era Moreno, c’era Lapo, e poi Frediano, Stefano e tutti e non avevano i loro attrezzi, erano tutti lì solo per Fabio, per fare il tifo, per incitarlo con il loro calore umano. Poi ci fu quell’abboccata decisa, il bambino tirò e sentì resistenza, una grande resistenza: aveva le lacrime agli occhi, piccole lacrime, piccoli diamanti. Si girò e fece per porgere la canna a Sebastian: “No, è tuo, ce la farai da solo, perché sei forte, più forte di lui”. “Ma se scappa…?”. “Se scappa, pazienza: ne prenderai un altro: capita a tutti i pescatori di perdere un pesce”. Non scappò e Fabio lo recuperò tutto da solo, fino a quando Sebastian lo prese con guadino; neppure lui aveva mai catturato uno storione simile, quasi venti chili! Forse anche i pesci volevano fare qualcosa per rendere felici gli ultimi giorni di Fabio, per dargli un’emozione mai provata, per mitigare l’ingiustizia che stava subendo dalla vita. Il bimbo era affannato, stanco dalla lunga lotta, non chiese di fare un altro lancio; ci fu la foto di rito, che avrebbero appeso al centro della bacheca apposita e poi il pesce tornò alle sue acque. La madre si appartò con Sebastian: “Sbagliavo – gli disse – grazie”, poi gli sfiorò una guancia con un bacio umido di lacrime e l’altra con una carezza. Prima di andarsene anche Fabio lo volle abbracciare e avrebbe voluto dirgli grazie, ma singhiozzava. Piangevano tutti, una dozzina di uomini adulti che singhiozzava senza ritegno. Fabio si riprese: “Grazie, torno se posso”. Non tornò più Un settimana più tardi Sebastian era appena arrivato al cancello ancora chiuso quando giunsero anche Germano e il suo datore di lavoro; notarono un cartello fatto di cartoncino appeso all’ingresso con due pezzetti di filo di ferro plastificato; diceva “Fabio non c’è più, se ne è andato sereno grazie a tutti voi. Grazie per tutto quello che avete fatto per renderlo felice un’ultima volta”. Per il proprietario, notoriamente col braccino corto, rinunciare a una giornata di apertura voleva dire perdere un incasso, ma girò il cartello e scrisse con mano tremante, senza riuscire a trattenere le lacrime: “Oggi il lago resterà chiuso per lutto. Fabio ci ha lasciati”. I clienti avrebbero capito; tutti girarono la macchina e se ne andarono. Si poteva anche rinunciare a un giorno di incasso o a una giornata di pesca, tutto, tutto per Fabio.
Resta solo l’attesa, la ricerca di un significato di cui si sente il bisogno, ma che resta irraggiungibile. Chi è Godot? La felicità? La morte? Dio?
sabato 10 novembre 2018
“Fabio, va’ piano, aspettami..”
Uno struggente brano nel quale sono inciampato mentre vagavo per la rete. Purtroppo non so chi sia l’autore.
Sebastian era arrivato da un paio di settimane, aveva fatto tre o quattro pomeriggi di pesca e avuto modo di catturare anche qualcuno dei grossi storioni appena immessi, esemplari di oltre dieci chili, anche se a nuotare nel lago ce n’erano anche di peso doppio. Sentì una voce affannata di donna gridare: “Fabio, va’ piano, aspettami..”; automaticamente si girò in direzione di quella voce. La donna doveva essere poco oltre la trentina, forse trentacinque ed era bellissima, non fosse stato per due profonde rughe che le solcavano il viso, rughe di preoccupazione e di dolore, ma gli occhi e il suo sguardo triste erano comunque straordinari. Fabio, suo figlio, evidentemente, aveva preso dalla mamma l’incredibile bellezza, solo che emanava simpatia, serenità e allegria. Gli era arrivato alle spalle di gran carriera: lui attirava i bambini, ispirava loro fiducia, solo che non era giunto correndo, ma su una carrozzella da invalidi a motore. Pochi secondi ed arrivò la madre ansimante, splendida nei pantaloni bianchi aderenti che le arrivavano poco sotto il ginocchio e la camicetta a fiori infilata in questi: un abbigliamento che ne evidenziava le forme perfette. Visto il mezzo di trasporto del ragazzino, che poteva avere undici o dodici anni, Sebastian capì il perché di quelle due rughe di sofferenza sul volto della donna. “Preso nulla?” chiese Fabio con una voce squillante come doveva essere quella degli angeli, che emanava una straordinaria, estroversa, allegria, nonostante il suo stato. “Un paio di storioni sui cinque chili” rispose l’uomo con noncuranza. “ Wow! – commentò con ammirazione il piccolo – sei proprio un figo: il pescatore più bravo del lago”. “Fabio!” lo apostrofò con voce bonariamente scandalizzata la madre: non doveva essere facile arrabbiarsi veramente con lui, un po’ per il suo stato, un po’ per la sua spontaneità e dolcezza. “Oh, non è mica un granché: qui dentro ci sono pesci che pesano quattro volte tanto”. A Fabio parve cadere la mandibola in una espressione buffa di autentico stupore: “Peccato che io non potrò mai prendere un pesce simile, neppure uno più piccolo: sai, io non sono paralizzato, potrei camminare, solo che sto morendo…”. Lo disse come una notizia marginale, senza dolore; Sebastian guardò di sguiscio la madre: le si era formato un gocciolone all’angolo dell’occhio, pareva un diamante. “Fabio…” lo richiamò ancora, ma con tono diverso da prima, più accorato e non poteva essere altrimenti. “Fabio, dobbiamo andare, fra poco arriva l’infermiera”. “Devo andare, fra poco arriva l’infermiera – le fece eco il figlio – tu quando torni?”. “Dopodomani”. “Se riesco, torno a trovarti – poi abbassò la voce a un livello udibile solo dall’uomo che stava accanto a lui – e ti racconto tutto”. “Va bene, sarò lieto di vederti” rispose: avrebbe voluto dire: di rivedere te e la mamma, ma non gli sembrava il caso di fare il galletto in quella situazione. Fabio tornò, sulla sua carrozzella a motore, con la madre, sempre più bella e sempre più sofferente nell’anima, lo si vedeva. “Eccomi qui, te l’avevo detto che sarei tornato a trovarti; se non fossi venuto sarebbe stato perché…” s’interruppe, guardò la madre con quel suo diamante liquido all’angolo dell’occhio e non terminò la frase. Sviarono il discorso, parlarono un po’ di pesca, di pesci, di catture, poi la donna chiese: “Fabio, lo vuoi un gelato?”. “Sì mamma, grazie, me lo vai a prendere?”. “Andiamo insieme..”. “No, dai, lasciami qui con il mio amico”. La donna parve un po’ indecisa. “Se vuole, non si preoccupi, lo guardo io e non mi dà fastidio, anzi, mi fa compagnia”. Titubante la donna si avviò al bar, sull’altra sponda del laghetto. “Ora che siamo soli ti dico tutto: sono nato con un grave difetto al cuore che mi ha fottuto sia reni che fegato: ho al massimo un mese di vita, ma pazienza: è come nella pesca, non sai mai se ti toccano cento pesci o dieci o nessuno. Io una dozzina di anni li ho vissuti, è andata così. Un po’ mi spiace per la mamma che resterà sola, ma un po’ sono contento: non ce la fa più povera donna e sono stanco anch’io delle cure”. Era incredibile: stava morendo, lo sapeva e si preoccupava per la madre. Meno male che Sebastian guardava il lago e la canna, perché anche i suoi occhi stavano diventando una miniera di diamanti. Poi la canna vibrò, Sebastian lottò e vinse contro un pesce di circa otto chili. Il bambino era pietrificato dall’emozione e dalla gioia. Sebastian rilanciò, dopo avere liberato il pesce, il bambino riprese la sua narrazione: “Sai cosa mi dispiace: non aver mai fatto l’amore, non ho neppure i peli là sotto e non mi sono mai neppure smanettato”. “Fabio Andrea Battisini!” lo richiamò la madre scandalizzata, che arrivava in quel momento con in mano il gelato e una birra per Sebastian, che era astemio, ma l’avrebbe bevuta lo stesso per non offenderla… almeno un po’. Fabio Andrea eccetera la guardò con un sorriso disarmante, come se fosse stato sorpreso a rubare un biscotto dalla credenza : ”… e di non potere mai prendere un pesce così” concluse. “Non è detto – rispose Sebastian d’impulso – io, Germano il gestore e il proprietario ti potremmo organizzare una giornata tutta per te, tutta e solo per Fabio”. Il bambino spalancò la bocca in quel suo buffo modo, poi si girò, guardò la madre con aria implorante: “Posso…?”. “Fabio, non credo sia il caso: sai che devi evitare sforzi ed emozioni, che ti fa male”. Adesso era il suo turno, per la prima volta, di sintetizzare diamanti dagli occhi; Sebastian si maledisse per la sua uscita, si sarebbe staccato la lingua a morsi. La voce di Fabio si alzò di un’ottava, man non di volume: pigolava: “Dai, mamma: ci sono le medicine, e poi cosa ho da perdere: gli ultimi quindici giorni in ospedale con l’ossigeno nel naso e un pannolino al posto dei boxer?”. La donna lanciò un’occhiata non proprio amichevole a Sebastian, poi sibilò: “Va bene”, appoggiò sulla coscia dell’uomo un biglietto da visita, quindi girò la sedia a rotelle del figlio e se ne andò. Ci fu una riunione a tre fra Sebastian, Germano e il proprietario; quest’ultimo aveva fama di “avere il braccino corto”, ma era sempre stato sensibile ai disabili e ai bambini, per cui accolse favorevolmente il piano di Sebastian: il giorno di chiusura settimanale avrebbero aperto solo per lui. Il fratello di Germano era un paramedico e sarebbe stato lì, pronto, con un defibrillatore, un ambu e l’ossigeno, anche se non li avrebbe messi in mostra e tutti sarebbero stati pronti ad aiutarlo. Sebastian telefonò alla signora Battistini e le espose il piano; lei gli rispose gelida, ma accettando tutto ciò che avevano preventivato per il piccolo. Venne il giorno: Fabio arrivò con la sua carrozzina alla massima velocità: aveva le gote rosse di eccitazione e di mal di cuore. Prima di iniziare la madre gli fece ingerire un paio di pastiglie grosse come caramelle, poi Sebastian gli porse la sua canna, montata, ma non innescata, gli spiegò come farlo di persona e come lanciare. Al primo tentativo il piombo gli finì quasi sui piedi e lui esplose in una fragorosa risata d’imbarazzo, ma era un bambino da sempre abituato a lottare, ci riprovò e fece un bel lancio. Al terzo tentativo ci fu un’abboccata, ma il pesce mollò la presa; intanto, in silenzio, erano arrivati tutti gli habitué del lago: c’era Moreno, c’era Lapo, e poi Frediano, Stefano e tutti e non avevano i loro attrezzi, erano tutti lì solo per Fabio, per fare il tifo, per incitarlo con il loro calore umano. Poi ci fu quell’abboccata decisa, il bambino tirò e sentì resistenza, una grande resistenza: aveva le lacrime agli occhi, piccole lacrime, piccoli diamanti. Si girò e fece per porgere la canna a Sebastian: “No, è tuo, ce la farai da solo, perché sei forte, più forte di lui”. “Ma se scappa…?”. “Se scappa, pazienza: ne prenderai un altro: capita a tutti i pescatori di perdere un pesce”. Non scappò e Fabio lo recuperò tutto da solo, fino a quando Sebastian lo prese con guadino; neppure lui aveva mai catturato uno storione simile, quasi venti chili! Forse anche i pesci volevano fare qualcosa per rendere felici gli ultimi giorni di Fabio, per dargli un’emozione mai provata, per mitigare l’ingiustizia che stava subendo dalla vita. Il bimbo era affannato, stanco dalla lunga lotta, non chiese di fare un altro lancio; ci fu la foto di rito, che avrebbero appeso al centro della bacheca apposita e poi il pesce tornò alle sue acque. La madre si appartò con Sebastian: “Sbagliavo – gli disse – grazie”, poi gli sfiorò una guancia con un bacio umido di lacrime e l’altra con una carezza. Prima di andarsene anche Fabio lo volle abbracciare e avrebbe voluto dirgli grazie, ma singhiozzava. Piangevano tutti, una dozzina di uomini adulti che singhiozzava senza ritegno. Fabio si riprese: “Grazie, torno se posso”. Non tornò più Un settimana più tardi Sebastian era appena arrivato al cancello ancora chiuso quando giunsero anche Germano e il suo datore di lavoro; notarono un cartello fatto di cartoncino appeso all’ingresso con due pezzetti di filo di ferro plastificato; diceva “Fabio non c’è più, se ne è andato sereno grazie a tutti voi. Grazie per tutto quello che avete fatto per renderlo felice un’ultima volta”. Per il proprietario, notoriamente col braccino corto, rinunciare a una giornata di apertura voleva dire perdere un incasso, ma girò il cartello e scrisse con mano tremante, senza riuscire a trattenere le lacrime: “Oggi il lago resterà chiuso per lutto. Fabio ci ha lasciati”. I clienti avrebbero capito; tutti girarono la macchina e se ne andarono. Si poteva anche rinunciare a un giorno di incasso o a una giornata di pesca, tutto, tutto per Fabio.
Sebastian era arrivato da un paio di settimane, aveva fatto tre o quattro pomeriggi di pesca e avuto modo di catturare anche qualcuno dei grossi storioni appena immessi, esemplari di oltre dieci chili, anche se a nuotare nel lago ce n’erano anche di peso doppio. Sentì una voce affannata di donna gridare: “Fabio, va’ piano, aspettami..”; automaticamente si girò in direzione di quella voce. La donna doveva essere poco oltre la trentina, forse trentacinque ed era bellissima, non fosse stato per due profonde rughe che le solcavano il viso, rughe di preoccupazione e di dolore, ma gli occhi e il suo sguardo triste erano comunque straordinari. Fabio, suo figlio, evidentemente, aveva preso dalla mamma l’incredibile bellezza, solo che emanava simpatia, serenità e allegria. Gli era arrivato alle spalle di gran carriera: lui attirava i bambini, ispirava loro fiducia, solo che non era giunto correndo, ma su una carrozzella da invalidi a motore. Pochi secondi ed arrivò la madre ansimante, splendida nei pantaloni bianchi aderenti che le arrivavano poco sotto il ginocchio e la camicetta a fiori infilata in questi: un abbigliamento che ne evidenziava le forme perfette. Visto il mezzo di trasporto del ragazzino, che poteva avere undici o dodici anni, Sebastian capì il perché di quelle due rughe di sofferenza sul volto della donna. “Preso nulla?” chiese Fabio con una voce squillante come doveva essere quella degli angeli, che emanava una straordinaria, estroversa, allegria, nonostante il suo stato. “Un paio di storioni sui cinque chili” rispose l’uomo con noncuranza. “ Wow! – commentò con ammirazione il piccolo – sei proprio un figo: il pescatore più bravo del lago”. “Fabio!” lo apostrofò con voce bonariamente scandalizzata la madre: non doveva essere facile arrabbiarsi veramente con lui, un po’ per il suo stato, un po’ per la sua spontaneità e dolcezza. “Oh, non è mica un granché: qui dentro ci sono pesci che pesano quattro volte tanto”. A Fabio parve cadere la mandibola in una espressione buffa di autentico stupore: “Peccato che io non potrò mai prendere un pesce simile, neppure uno più piccolo: sai, io non sono paralizzato, potrei camminare, solo che sto morendo…”. Lo disse come una notizia marginale, senza dolore; Sebastian guardò di sguiscio la madre: le si era formato un gocciolone all’angolo dell’occhio, pareva un diamante. “Fabio…” lo richiamò ancora, ma con tono diverso da prima, più accorato e non poteva essere altrimenti. “Fabio, dobbiamo andare, fra poco arriva l’infermiera”. “Devo andare, fra poco arriva l’infermiera – le fece eco il figlio – tu quando torni?”. “Dopodomani”. “Se riesco, torno a trovarti – poi abbassò la voce a un livello udibile solo dall’uomo che stava accanto a lui – e ti racconto tutto”. “Va bene, sarò lieto di vederti” rispose: avrebbe voluto dire: di rivedere te e la mamma, ma non gli sembrava il caso di fare il galletto in quella situazione. Fabio tornò, sulla sua carrozzella a motore, con la madre, sempre più bella e sempre più sofferente nell’anima, lo si vedeva. “Eccomi qui, te l’avevo detto che sarei tornato a trovarti; se non fossi venuto sarebbe stato perché…” s’interruppe, guardò la madre con quel suo diamante liquido all’angolo dell’occhio e non terminò la frase. Sviarono il discorso, parlarono un po’ di pesca, di pesci, di catture, poi la donna chiese: “Fabio, lo vuoi un gelato?”. “Sì mamma, grazie, me lo vai a prendere?”. “Andiamo insieme..”. “No, dai, lasciami qui con il mio amico”. La donna parve un po’ indecisa. “Se vuole, non si preoccupi, lo guardo io e non mi dà fastidio, anzi, mi fa compagnia”. Titubante la donna si avviò al bar, sull’altra sponda del laghetto. “Ora che siamo soli ti dico tutto: sono nato con un grave difetto al cuore che mi ha fottuto sia reni che fegato: ho al massimo un mese di vita, ma pazienza: è come nella pesca, non sai mai se ti toccano cento pesci o dieci o nessuno. Io una dozzina di anni li ho vissuti, è andata così. Un po’ mi spiace per la mamma che resterà sola, ma un po’ sono contento: non ce la fa più povera donna e sono stanco anch’io delle cure”. Era incredibile: stava morendo, lo sapeva e si preoccupava per la madre. Meno male che Sebastian guardava il lago e la canna, perché anche i suoi occhi stavano diventando una miniera di diamanti. Poi la canna vibrò, Sebastian lottò e vinse contro un pesce di circa otto chili. Il bambino era pietrificato dall’emozione e dalla gioia. Sebastian rilanciò, dopo avere liberato il pesce, il bambino riprese la sua narrazione: “Sai cosa mi dispiace: non aver mai fatto l’amore, non ho neppure i peli là sotto e non mi sono mai neppure smanettato”. “Fabio Andrea Battisini!” lo richiamò la madre scandalizzata, che arrivava in quel momento con in mano il gelato e una birra per Sebastian, che era astemio, ma l’avrebbe bevuta lo stesso per non offenderla… almeno un po’. Fabio Andrea eccetera la guardò con un sorriso disarmante, come se fosse stato sorpreso a rubare un biscotto dalla credenza : ”… e di non potere mai prendere un pesce così” concluse. “Non è detto – rispose Sebastian d’impulso – io, Germano il gestore e il proprietario ti potremmo organizzare una giornata tutta per te, tutta e solo per Fabio”. Il bambino spalancò la bocca in quel suo buffo modo, poi si girò, guardò la madre con aria implorante: “Posso…?”. “Fabio, non credo sia il caso: sai che devi evitare sforzi ed emozioni, che ti fa male”. Adesso era il suo turno, per la prima volta, di sintetizzare diamanti dagli occhi; Sebastian si maledisse per la sua uscita, si sarebbe staccato la lingua a morsi. La voce di Fabio si alzò di un’ottava, man non di volume: pigolava: “Dai, mamma: ci sono le medicine, e poi cosa ho da perdere: gli ultimi quindici giorni in ospedale con l’ossigeno nel naso e un pannolino al posto dei boxer?”. La donna lanciò un’occhiata non proprio amichevole a Sebastian, poi sibilò: “Va bene”, appoggiò sulla coscia dell’uomo un biglietto da visita, quindi girò la sedia a rotelle del figlio e se ne andò. Ci fu una riunione a tre fra Sebastian, Germano e il proprietario; quest’ultimo aveva fama di “avere il braccino corto”, ma era sempre stato sensibile ai disabili e ai bambini, per cui accolse favorevolmente il piano di Sebastian: il giorno di chiusura settimanale avrebbero aperto solo per lui. Il fratello di Germano era un paramedico e sarebbe stato lì, pronto, con un defibrillatore, un ambu e l’ossigeno, anche se non li avrebbe messi in mostra e tutti sarebbero stati pronti ad aiutarlo. Sebastian telefonò alla signora Battistini e le espose il piano; lei gli rispose gelida, ma accettando tutto ciò che avevano preventivato per il piccolo. Venne il giorno: Fabio arrivò con la sua carrozzina alla massima velocità: aveva le gote rosse di eccitazione e di mal di cuore. Prima di iniziare la madre gli fece ingerire un paio di pastiglie grosse come caramelle, poi Sebastian gli porse la sua canna, montata, ma non innescata, gli spiegò come farlo di persona e come lanciare. Al primo tentativo il piombo gli finì quasi sui piedi e lui esplose in una fragorosa risata d’imbarazzo, ma era un bambino da sempre abituato a lottare, ci riprovò e fece un bel lancio. Al terzo tentativo ci fu un’abboccata, ma il pesce mollò la presa; intanto, in silenzio, erano arrivati tutti gli habitué del lago: c’era Moreno, c’era Lapo, e poi Frediano, Stefano e tutti e non avevano i loro attrezzi, erano tutti lì solo per Fabio, per fare il tifo, per incitarlo con il loro calore umano. Poi ci fu quell’abboccata decisa, il bambino tirò e sentì resistenza, una grande resistenza: aveva le lacrime agli occhi, piccole lacrime, piccoli diamanti. Si girò e fece per porgere la canna a Sebastian: “No, è tuo, ce la farai da solo, perché sei forte, più forte di lui”. “Ma se scappa…?”. “Se scappa, pazienza: ne prenderai un altro: capita a tutti i pescatori di perdere un pesce”. Non scappò e Fabio lo recuperò tutto da solo, fino a quando Sebastian lo prese con guadino; neppure lui aveva mai catturato uno storione simile, quasi venti chili! Forse anche i pesci volevano fare qualcosa per rendere felici gli ultimi giorni di Fabio, per dargli un’emozione mai provata, per mitigare l’ingiustizia che stava subendo dalla vita. Il bimbo era affannato, stanco dalla lunga lotta, non chiese di fare un altro lancio; ci fu la foto di rito, che avrebbero appeso al centro della bacheca apposita e poi il pesce tornò alle sue acque. La madre si appartò con Sebastian: “Sbagliavo – gli disse – grazie”, poi gli sfiorò una guancia con un bacio umido di lacrime e l’altra con una carezza. Prima di andarsene anche Fabio lo volle abbracciare e avrebbe voluto dirgli grazie, ma singhiozzava. Piangevano tutti, una dozzina di uomini adulti che singhiozzava senza ritegno. Fabio si riprese: “Grazie, torno se posso”. Non tornò più Un settimana più tardi Sebastian era appena arrivato al cancello ancora chiuso quando giunsero anche Germano e il suo datore di lavoro; notarono un cartello fatto di cartoncino appeso all’ingresso con due pezzetti di filo di ferro plastificato; diceva “Fabio non c’è più, se ne è andato sereno grazie a tutti voi. Grazie per tutto quello che avete fatto per renderlo felice un’ultima volta”. Per il proprietario, notoriamente col braccino corto, rinunciare a una giornata di apertura voleva dire perdere un incasso, ma girò il cartello e scrisse con mano tremante, senza riuscire a trattenere le lacrime: “Oggi il lago resterà chiuso per lutto. Fabio ci ha lasciati”. I clienti avrebbero capito; tutti girarono la macchina e se ne andarono. Si poteva anche rinunciare a un giorno di incasso o a una giornata di pesca, tutto, tutto per Fabio.
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